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«Sono una suora omosessuale. L’amore è una forma di carità»

Ultimo Aggiornamento: 30/03/2006 17:05
30/03/2006 17:05
 
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«Sono una suora, amo un’altra suora, sono felice di essere ricambiata». La lettera che leggete è arrivata a Liberi tutti dopo molta attesa. Desideravo da tempo che con semplicità una donna religiosa, che ha preso i voti, scrivesse a tutti noi. La nostra lettrice, che non si firma spiegandocene le ragioni, testimonia per sé e per le donne che amano le donne che «riconoscere il diritto di esistere e di amare a persone dello stesso sesso è una forma alta di carità e non una turpe abberrazione». La lettera è giunta in tempo, nel corso di una campagna elettorale in cui il giudizio pesante del Vaticano espresso nei confronti delle unioni civili tra etero e tra gay si è fatto sentire non poco. Noi qui desideriamo mettere in luce due realtà.

La prima: quando non si vogliono riconoscere la forza dei sentimenti e il diritto pieno a viverli di qualsiasi persona, omosessuali compresi, si procurano molte ferite. La seconda: non ci sono morali in grado di uccidere la bellezza dell’amore. Contrastato, fiorisce ovunque, anche nei conventi. E non smette mai il suo abito di purezza.
«Non voglio fare del male alla Chiesa, non voglio non parlare anche dei miei errori di giudizio e di superficialità. Mentre scrivo queste righe so che peso hanno e che valore hanno per me e per gli altri. Sono una suora, una religiosa lo sono perché con tanto entusiasmo e voglia di amore senza limiti ho deciso di donare la mia vita agli altri a tutti gli altri. In appoggio alla mia scelta seppur molto precoce ho trovato un ambiente entusiasta che non si è chiesto molto quali erano le mie motivazioni.

L'iter formativo è stato arricchente sia dal punto di vista spirituale che della conoscenza di me stessa. Mi sono accorta subito però che provavo dell'attrazione per una persona più grande di me, un’altra suora. Le amicizie in un ambiente chiuso specie se esclusivamente femminile sono molto intense e i limiti tra amicizia e amore, se non si vigila, possono essere molto sfumati. Molte di noi le vivevano con innocenza e inconsapevolezza confessando la gelosia e la tendenza al posseso, ma ignorando completamente il vero significato di ciò che questi due sentimenti segnalano. Io seppur giovane non mi sono mai fatta sconti e invece chiamavo questo sentimento con il suo nome: amore.

Che gioia scoprire di essere ricambiata, che forte quel sentimento, che intensi gli sguardi quando gli altri non guardano. Ma che dolore non poterlo vivere e che dolore far restare questo sentimento nel ristretto alveo di un’amicizia che in altri tempi avrebbero designato con l'aggettivo "particolare". Sono lesbica? Mi trovo solo in una situazione "innaturale" come dicono in molti? Non lo so! So solo che forse davvero i confini tra eterosessualità e omosessualità non sono così netti.

Che forse la continenza non è solo appannaggio degli eterosessuali. Che forse il riconoscere il diritto di esistere e di amare a persone dello stesso sesso è una forma alta di carità e non una turpe abberrazione. Mi dispiace di non avere il coraggio e la coerenza di firmare questa lettera. Forse questo è un peccato più grave di quello di provare un sentimento inespresso per un'altra donna. Ho scritto questa lettera all'anti-vigilia della festa delle donne. Questa ricorrenza non l'ho mai festeggiata, ma vorrei dire alle donne che leggono questo scritto un po' codardo che se provano amore per un'altra persona e non lo hanno ancora detto, di qualsiasi sesso essa sia, si facciano un regalo e parlino. Non ci si deve negare la gioia grande di un amore!»

«Qui vivo una vita non mia, per cercarmi volo in America»
La storia di Luca mette in luce gli effetti provocati dalla morale cattolica, se interpretata in modo rigido ed escludente, su una persona omosessuale e sulla sua famiglia. Racconta di un giovane credente che pur amando i suoi e Dio può solo andare lontano, in America, per trovare se stesso. È una decisione estrema, dolorosa per tutti, che deve far riflettere. «Fino ai 18 anni servivo messa tutte le domeniche, a volte anche qualche giorno durante la settimana. Mi piaceva, meditavo su tutto quello che veniva letto e pronunciato. Ma non riuscivo a trovare, in quelle letture nessun appiglio che mi inducesse a essere diverso da come effettivamente ero.

Ama il prossimo
Secondo il messaggio evangelico, è sufficiente voler bene al mio prossimo. Che c'entra questo con l'essere omosessuale? Anche se questa domanda assillava quotidianamente la mia mente, io, ligio al dovere come uno scolaretto in divisa, mi piegavo sempre agli ordini impliciti di superiori inclementi.
La mia vita fino ai 27 anni è stata una vita non mia. Oggi ne ho 28. Non so quando questa finta vita è iniziata. Ricordo che scoprii con sollievo alcuni compagni delle medie apprezzare come me le pubblicità dei fotomodelli in costume. Frequentando un istituto di preti, in una classe esclusivamente maschile, cresciuto in una famiglia di cattolici ultrapraticanti, fui costretto da subito a tenermi tutto dentro. Non doveva esistere nulla al di fuori di quello che vedevano i miei genitori. Loro non esitavano a esprimere giudizi sulle persone se si comportavano in maniera contraria alla morale sessuale imposta dalla Chiesa.

Mia madre, ginecologa, vittima di un'educazione rigidissima, storceva il naso ogni volta che doveva raccontarmi di una ragazzina, sua paziente, rimasta incinta a sedici anni. Mio padre, cresciuto altrettanto rigidamente, ha sempre pensato restando sempre all'interno di schemi predeterminati. Di tutto ciò che stava fuori non si parlava, né allora, né ora. La mia omosessualità, ovviamente, per loro non esiste. In casa, il sesso era (ed è) un tabù. Non se ne parlava ed era bandita qualsiasi parola che riproducesse, più o meno volgarmente, la terminologia propria degli organi sessuali. Non era ammessa nessuna parolaccia. Soprattutto, non era ammesso nessuno sgarro: dovevo essere lo studente perfetto, con la pagella perfetta e una vita perfetta. Una vita non mia.

La mia adolescenza è trascorsa piegato sui libri, abbandonato anche dai compagni che, all'inizio del liceo, negarono di essere mai entrati nei bagni in cui avevamo consumato le prime esperienze tra coetanei. Da allora, non so quanto tempo ho perso ripensando a come mi sentivo solo per colpa del mondo. E me la prendevo con Dio, gli domandavo in continuazione perché mi avesse condannato a quella situazione. A un certo punto, pensai che qualcuno avesse stipulato con Lui un patto per mio conto: darmi tutto ciò che chiedevo a fronte della negazione della mia identità.

La solitudine
Così avviene ancora oggi. Ho prospettive di successo nel lavoro, piena salute, tanti amici che mi adorano e una famiglia unita. Ma nessuna persona da amare.
Il primo ragazzo che mi piacque fu il compagno di banco in IV ginnasio. Bello ma irraggiungibile. Il secondo è stato Massimo, conosciuto qualche anno fa. Naturalmente, è diventato il mio migliore amico, il "fratello" - come scrivevo nei moltissimi sms quotidiani a lui diretti - e il confidente più intimo, salvo che per la verità sul sentimento che provavo per lui. Lo riempii di regali, ma non bastò per fargli percepire il mio affetto "diverso". Ci iscrivemmo in piscina, così potevo averlo tutto per me due volte a settimana e ammirare il suo fisico scultoreo per qualche ora.

Una notte, mentre mi trovavo con l'intera compagnia nella sua casa in montagna, sentii molto chiaramente quello che lui faceva con la sua ragazza nella stanza a fianco. Avrei voluto morire in quell'istante. Qualcuno possedeva la persona che amavo e la cosa mi faceva impazzire. Non lo potevo avere non per una mia condotta o per una mia decisione: non lo potevo avere e basta, perché Dio aveva creato me omosessuale e lui etero. Punto. I miei genitori erano sempre più presenti eppure sempre più lontani. Si riempirono di debiti e per pagarli dovettero lavorare il triplo. Ciò rubò tempo alla famiglia e a un figlio, che restava sempre più solo. A cena l'atmosfera era tesissima. Mia madre continuava a dirmi: "Ma allora, cosa aspetti a trovarti la ragazza?". Mi dispiace dover affermare che il rifiuto costante degli omosessuali da parte delle gerarchie cattoliche - che va ben oltre quanto è scritto nel Catechismo, bensì si traduce in un odio latente, espresso in comunicati stampa privi di un pur minimo tatto mediatico - non aiuta le famiglie, ma innesca un vortice di conflitti e di rifiuto della realtà.

Quando in casa si parla di omosessualità - e non capita mai per spontanee discussioni, ma per "provocazioni" sentite al telegiornale - mi pare di aver di fronte la classe più omofoba del Seminario. Ho sempre avuto paura di parlarne apertamente coi miei genitori e non credo che lo farò presto. Quando timidamente apro una conversazione sul tema, trovo in loro, come ho trovato in passato, un agghiacciante silenzio. Chi non conosce una realtà, non ne parla. Così si comporta anche chi fa finta di non vederla.
Due anni fa è arrivata Sara. La mia prima - e ultima - ragazza. Mi ha dato tutto l'amore che mi mancava.

Voleva veramente solo il mio bene. Ero io che non volevo il mio bene: volevo solo il bene degli ipocriti che avevo intorno, degli amici che sfottevano gli omosessuali senza rendersi conto di averne uno presente, della mia famiglia sempre pronta a pregare per questo o quello, ma lontana dal convincersi che la vera sofferenza è tra le mura domestiche.

Poco più di un anno fa, ho vinto una borsa di studio e mi sono trasferito per un po' negli Stati Uniti. Stranamente, non mi sono dato alla pazza gioia. Semplicemente ho mollato Sara, procurandole dolore senza dirle la ragione. Ho riscoperto pian piano la gioia di rimanere da solo in casa, di perdere tempo a chiacchierare con un amico del più e del meno, di fumare una sigaretta contemplando la luna piena. La solitudine è diventata un piacere, oltre che una necessità.
Ho trovato degli amici che mi hanno stupito quando ho iniziato a dire di me. È questo l'inizio di un faticoso cammino verso la piena scoperta di me stesso».
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