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IL PACS IN ITALIA

Ultimo Aggiornamento: 18/03/2007 18:36
09/11/2005 13:41
 
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Non c’è alcun dubbio che il bilancio storico sul matrimonio è che si è trattato di un orrore. Col matrimonio si è codificata l’inferiorità sociale delle donne, che sono state scambiate tra le famiglie, vendute a mariti che ne potevano fare ciò che volevano (fino ad avere su di loro diritto di vita o di morte), obbligate persino a chiedere il permesso del marito se volevano lavorare fuori casa, letteralmente chiuse nelle case a lavorare e produrre figli, come accade ancora ora in molte regioni del mondo. Una donna che veda scorrere davanti a sé la storia del matrimonio non può che diventare femminista, magari perfino lesbica.

Ma non possiamo essere cieche davanti ai cambiamenti che i movimenti a partire dal 1968 hanno portato. La nuova società non ha potuto fare a pezzi il matrimonio e buttarlo via (come femministe e gay avrebbero voluto), però lo ha emendato, lo ha trasformato in qualcosa di molto diverso. Il nome è lo stesso, ma il contenuto è cambiato (ciò che accade all’interno delle famiglie può a volte essere identico a prima, ma questo ovviamente non è colpa della “forma” del matrimonio…). Infatti dal 1975 in Italia esiste la parità tra marito e moglie, anche nel potere decisionale, esiste l’equiparazione ai figli legittimi dei figli nati fuori dal matrimonio, è stata abolita l’autorità maritale, che comprendeva l’uso di “mezzi di correzione e disciplina” nei confronti della moglie, e il matrimonio non prevede più il “dovere coniugale”, cioè lo stupro è punito dalla legge anche se a commetterlo è il marito, il quale insieme al “sì” della sposa non acquista più signoria sul corpo della moglie, come accadeva fino al 1981. Oggi a Milano e Bologna i matrimoni in comune sono più numerosi di quelli religiosi, mentre su scala nazionale i matrimoni laici sono in crescita e rappresentano più di un quarto di quelli celebrati in chiesa.

Per la filosofa Hannah Arendt, punto di riferimento dell’attuale movimento delle donne: “Il diritto di sposare chi vogliamo è un diritto umano elementare, accanto al quale tutti gli altri sono di rango inferiore”. Lo scrisse nel 1959 per sostenere le richieste dei neri americani di cancellare le leggi contro la celebrazione di matrimoni tra “razze” diverse. Dunque perché non è pacifica la considerazione del matrimonio come di un diritto negato agli omosessuali? Lo stesso Eric Fassin, che ha citato la Arendt su “Le monde diplomatique” nel giugno 1998 perorando l’apertura del matrimonio ai gay, scrive che: ”Gli eredi di Michel Foucault vedono la finalità del matrimonio nell’addomesticamento sessuale; gli omosessuali si condannerebbero quindi a scimmiottare la norma eterosessuale”. Insomma, non dovremmo riconoscere all’ordine costituito la facoltà di stabilire diritti e doveri nelle nostre relazioni più intime.

Ma questo discorso finge che l’assenza di una legge non abbia alcun potere sulle nostre vite, mentre al contrario è proprio l’assenza di una legge la somma ingiustizia, la discriminazione. Posso scegliere di non sposarmi (o di non entrare in un Pacs) se le mie regole di vita non le ritrovo nel modello proposto (che comunque è assai condiviso, dato che ha una relazione fissa la maggioranza degli omosessuali italiani, e vive in coppia il 20-30%) ma per scegliere devo per lo meno avere la possibilità di sposarmi.

Questo non è chiaro a molte voci del femminismo italiano, e vorrei ora presentare un piccolo florilegio delle argomentazioni più strampalate che ho trovato, assieme a qualche sparso argomento di segno contrario, principalmente nelle pagine pubblicate sul sito www.libreriadelledonne.it, collegato alla Libreria delle donne di Milano.

“Le relazioni omosessuali finché restano segrete, non c’è ente che possa dire alcunché a proposito né se gli stanno bene né se non gli stanno bene. Dopo il matrimonio, su chissà che cosa ancora avrebbe la pubblica opinione, e poi lo stato a che dire, ridire e disdire. (…) L’omosessualità, restando fuori legge, ha questo di normale: che nessuno può permettersi di dire cosa può fare o non fare, può solo proibirla e regnare sulla proibizione e chi la aggira, oppure punirla, a suo rischio.” Queste frasi si leggono in un articolo eloquentemente intitolato La fortuna del silenzio nel “matrimonio” gay di Donatella Massara (del Circolo della Rosa di Milano), che deduce che non esiste il tabù sull’omosessualità dal fatto che di omosessualità non si parla. Tranne che per insultare, ma questo forse è un vantaggio che contribuisce alla segretezza delle nostre relazioni...

Marina Terragni invece (“Io donna”, 29 aprile 2005) teme la “normalizzazione eterocentrica”, e scrive che: “Ci sono svariate ragioni per essere perplessi sul matrimonio gay, anche noialtri calorosi e devoti amici di gay (…). Il matrimonio è un istituto antichissimo e usurato e pesante quanto basta da non risultare troppo attraente per nessuno, neanche per gli etero, per quanto non si sia ancora individuata una forma materiale e simbolica più congeniale alla triangolazione edipica che consente ai figli di crescere dritti”. Traduco: il complesso edipico esiste, fa crescere bene i bimbi, e siccome per obbedire ai dettami di Freud la mamma deve essere femmina e il papà maschio, questa è l’unica famiglia possibile.

La stessa cosa l’ha detta in Francia una filosofa femminista, Sylviane Agacinski (in Politique des sexes, Le Seuil), per la quale la differenza dei sessi è radicata nella natura: “è nella necessaria complementarità genitoriale che gli umani riconoscono a un tempo la loro differenza e la loro reciproca dipendenza”, e la natura va difesa mantenendo famiglie dove la donna fa la madre e moglie e l’uomo il padre e marito. Altrimenti addio differenza tra i sessi!

Qui la cosa si fa pericolosa. Puzza di difesa della famiglia tradizionale. Ma è possibile? Sembra veramente di essere nella repubblica di Weimar, quando all’avanzare del nazismo l’ala borghese del primo movimento delle donne ripudiava ed espelleva coloro che difendevano gli omosessuali e la contraccezione, per difendere la Famiglia…

Ebbene sì, è possibile. Nell’articolo su “Io donna” Terragni chiama in causa Laura Boella, studiosa (evidentemente eretica!) di Hannah Arendt e filosofa del movimento delle donne: “Per Boella voler dare un senso alla propria relazione amorosa, eterosessuale o omosessuale che sia, è ‘un bene immenso per il mondo’. Ma in questo la legge non deve mettere il naso. L’articolo 29 della Costituzione deve restare quello che è. La lunga storia della famiglia tradizionale, che pur con tutte le sue crisi mostra di essere un dispositivo di convivenza ancora valido e funzionante”. Provo a tradurre: riconoscere pubblicamente le coppie gay è anticostituzionale e “nella concreta realtà italiana non vanno mai persi di vista, in primo luogo, il grandissimo ruolo sociale svolto dalla famiglia, qui assai più che in altri Paesi a noi vicini, e il contributo determinante che una famiglia autentica dà all’educazione dei figli”. Questo però l’ha detto, parola per parola, il cardinal Ruini. Dov’è la differenza? Restiamo in attesa di spiegazioni.

Io sinceramente non arrivo a capire perché i “diritti della famiglia” sarebbero lesi dal fatto che persone omosessuali ne entrino a fare parte. Veruska Sabucco mi aiuta, dicendo che sarebbe come dire che “La famiglia può essere formata anche da due laidi stupratori di bambini. A quel punto la risposta è: ma tuo figlio fa il chierichetto? Preoccupati!”

Tornando alle femministe nostrane, ho letto anche, in un articolo firmato da un’ennesima filosofa, Chiara Zamboni (La cultura dei diritti e la fine della politica, “L’Unità”, 12/7/2003), le seguenti parole: “Non c’è niente di più del richiedere un diritto per gruppi sociali marginali che incastra in una identità rigida. Occorre dichiararsi gay, ad esempio, per avere dei diritti in quanto omosessuali”. Ma il punto è esattamente questo: non chiediamo diritti “in quanto omosessuali”, ma in quanto esseri umani che formano coppie, e a volte famiglie, e vogliamo che le nostre scelte siano rispettate nella sfera pubblica, come “formazioni sociali in cui si svolge la nostra personalità” (art. 2 Cost.). Sappiamo che non è giusto chiedere diritti in quanto omosessuali, e accusarci di questo significa sottoscrivere la tesi destrorsa per cui le nostre richieste sarebbero “privilegi”, “diritti speciali”. Lo diceva anche Karl Marx (filosofo anche lui, un autore che può chiarirci molte cose del nostro tempo, che a torto lo sta dimenticando) a proposito della discriminazione degli ebrei: la questione dell’accesso degli ebrei alla cittadinanza non va posta “perché sono ebrei”, ma perché sono esseri umani. Come tutti gli altri.



Daniela Danna è coautrice, insieme a Margherita Bottino, del saggio La gaia famiglia. Che cosa è la omogenitorialità, edizioni Asterios.
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