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Imprenditori gay, ma sempre in doppiopetto

Ultimo Aggiornamento: 20/12/2005 20:16
20/12/2005 20:16
 
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Nelle aziende non ci sono soltanto stilisti e creativi. Ora un club di manager gay vuole battere stereotipi e discriminazioni


Una ricerca dell'Unione Europea ha scoperto che il novantotto per cento dei manager italiani alla domanda: «Ave te personale omosessuale nella vostra azienda?», ha risposto di no, senza dubbio alcuno. E invece nella vita le certezze non esistono. Le cose infatti non stanno proprio così, se un gruppo di affermati uomini d'affari ha sentito il bisogno di fondare la prima associazione italiana che riunisce professionisti, imprenditori e manager omosessuali PrIMO Network, nata a Milano nel 2003, è ancora un unicum in Italia, mentre associazioni professional, termine più ampio del nostro professionisti, sono presenti dalla fine degli anni Ottanta in Olanda, Francia, Germania, Svizzera e nel mondo anglosassone.

«Tutto iniziò con una sfilata in gessato e ventiquattr'ore», ricorda Dario Galli, presidente di PrIMO. Quarantasette anni, completo grigio ed elegante cravatta regimental, imprenditore nel settore dell'informatica, con una vasta esperienza come consulente di In-formation Technology e l'hobby delle filosofie orientali nonché la passione per il massaggio shiatsu, «purtroppo single» che, come confessa, si sarebbe «pacsato volentieri». «Durante il Gay Pride del 2001 a Milano decidemmo di partecipare anche noi, ma vestiti come tutti i giorni, giacca e cravatta. I media continuarono a puntare i loro obiettivi sui lustrini e le paillettes, confermando il solito stereotipo di omosessuale eccessivo e stravagante. Ma i gay non sono tutti stilisti e parrucchieri e non sono sempre li che ballano in canottiera al ritmo dei Village People».

Dal Gay Pride alle mailing list in rete con l'idea di un'associazione che riunisse la nuova «altra metà del cielo», quella omosessuale. In poco tempo centinaia di adesioni: «Nel 2003, fondando l'associazione, eravamo pronti a testimoniare la nostra esistenza. Siamo una fetta di società che ha un lavoro economicamente rilevante, paghiamo le tasse e vorremmo essere presi in considerazione».

Oggi PrIMO ha più di cinquecento simpatizzanti e ogni giorno continue richieste di adesione. Tantissimi avvocati («anche noi ci siamo stupiti», ammette Galli) e poi commercialisti, magistrati, psicologi, architetti, un tre per cento di medici e giornalisti e ben un dodici per cento di professori e ricercatori universitari. La fetta più grossa appartiene comunque ai manager, il 37 per cento, e in misura rilevante anche agli imprenditori, soprattutto del Nord Italia (10 per cento).

«Abbiamo ricevuto», continua Galli, «anche la richiesta di adesione di un poliziotto, che voleva sapere se rientrava tra i liberi professionisti. Al nostro diniego ha comunque domandato se era possibile fondare un'associazione per i poliziotti gay. Credo che da noi questi siano ancora miraggi che diventano realtà solo a Londra e New York». Per tutti, il desiderio di un cambio culturale: «Essere gay nel mondo del design e della moda è un vantaggio, ma prova a farlo valere in uno studio legale», osserva Gianluca Nonnis, responsabile della comunicazione del network Si sente forte l'esigenza di fare gruppo, una rete compatta e trasversale, apolitica e aconfessionale: «Sì, siamo una lobby e non ci vergogniamo di esserlo», ammette senza problemi Galli. «E per lobby intendiamo gruppo organizzato di pressione, capace di portare avanti le nostre istanze sociali e politiche. Per far valere un cambiamento culturale, che da noi ancora non c'è.

In Inghilterra gli omosessuali erano condannati al carcere come Oscar Wilde, da noi no. Ma forse è stato peggio, tutto è rimasto nascosto sotto la sabbia. E siamo fermi al medioevo. Fino a pochi anni fa per i gay gli unici luoghi d'incontro erano i bar o le saune. Posti dove rimorchiare, non dove incontrarsi e scambiare idee».

In Italia dichiararsi gay in uno studio professionale o dentro l'università ancora può nuocere alla carriera, e lo ammettono con pudore i soci di PrIMO che affrontano la questione con entusiasmo, ma poi preferiscono non apparire con i loro nomi.

«Siamo ancora molto lontani dal capire che la diversità è una ricchezza per le aziende, e intendo in termini economi-ci, di creatività, di produttività», spiega Sergio Caredda, vicepresidente. Trent'anni, responsabile della formazione in Diesel e docente di Economia delle imprese e organizzazioni no-profit all'università di Bologna. Il terzo settore è la sua grande passione, come la politica internazionale e la poesia.
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